giovedì 28 aprile 2011

San Salvador de Jujuy


Dopo la anticipazione di Valle Fertil, con le sue case bianche, i suoi negozi con le insegne dipinte a mano, la lunga siesta, le etnie che finalmente iniziano a mescolarsi, ecco che arriviamo nel vero sudamerica.


A Jujuy si respira l'odore acre che mescola le spezie dei besagnini con il pollo fritto dei venditori ambulanti, la puzza di fogna con quella degli scarichi degli autobus, l'odore dei tropici con il sudore della gente.

 
E si sentono gli altoparlanti dei venditori di musica e di film che si fondono con il cianciare ad alta voce delle persone, lo strombazzare delle auto che si mescolano con le televisioni a tutto volume, e ovviamente, i vicini di stanza del nostro residenciales dai muri troppo sottili, tutti impegnati nelle loro notti di sesso trasgressivo lontano dagli ignari consorti. E la gente per le strade, in tutta la sua umanità.


Questo è il mercato che anima tutto il quartiere intorno al terminal degli omnibus, e qui decidiamo infatti di fermarci un paio di giorni. Solo indigeni per la strada, e noi.


Gli altri pochi turisti bianchi che incrociamo si muovono con passo frettoloso verso il più lindo e sicuro centro della città. Lo visiteremo anche noi il centro, molto carino, ma anche molto standardizzato e a misura di benestante, molto americanizzato, ma soprattutto bianco. Sì, qui si vede chiaramente la divisione in classi sociali – e in razze – di questo paese. Gli uni da una parte, gli altri dall'altra.
Noi preferiamo la più esotica e “pericolosa” parte indigena. Ma veramente c'è da aver più paura a Brignole quando sull'autobus salgono le vecchiette di Nervi e te hai avuto la sfortuna di aver trovato un posto a sedere. Tanto casino e tanta gente, e tanti colori, e questo volevamo.


Volevamo un po' di cultura, arte e monumenti sì, ma soprattutto la sub-cultura, quella della strada, del tessuto urbano, dei negozi, della gente, dei colori, dei fruttivendoli e dei tapullanti, della vita nelle strade e del gran casino, dei chioschi, dei bar, della gente che si incontra, soprattutto di quello che si mangia: quello che le tradizioni sono riuscite a trasmettere alla quotidianità.
E al sud nei posti che abbiamo visitato non ne abbiamo vista molta.
Al sud le città sono costruite in modo quasi totalmente artificiale a uso e consumo di un turismo massificato, a soddisfare i bisogni di coloro che vengono ad ammirarne i parchi e le montagne. Forse l'unica che un pochino si salva è Puerto Natales, con le sue facciate colorate e la sua gente schiva, ma cordiale, un po' come su nel Norrland scandinavo. Ma questa è una città con una tradizione portuale, mentre altri posti come El Chalten, El Calafate, San Martin de Los Andes, Pucon, Bariloche (ma anche El Bolson che se la tira tanto da posto di frichettoni e alternativi) sono asettiche e tutte uguali. Forse hanno bisogno di tempo per crescere, non so.
Ovviamente si parla di posti che abbiamo visto, non sappiamo se Ushuaia o Rio Gallegos siano diverse. Però anche città non turistiche come Rawson sono abbastanza sterili.


L'unica cultura che esiste al sud è quella dei nativi, che se ne stanno giustamente ben nascosti a cazzi loro nelle riserve, e a noi non passa minimamente per la testa di andar lì a compiere safari antropologici.
Man mano che ti sposti al nord gli indigeni iniziano a incrociarsi con quello che è rimasto della colonizzazione spagnola. Nella zona di San Juan e La Rioja, a nord di Mendoza, i Diaguita sono stati evangelizzati pacificamente, così che le tradizioni si sono mescolate e sono in parte rimaste radicate nella gente. E mano a mano che sali sarà sempre più così.

 
E allora viva Jujuy!

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