martedì 28 agosto 2012

Ciao Gian


Oggi sono salito al cimitero di Maddalena e son tornato a trovarlo.
Mi sono stupito di trovare un pò di malinconico abbandono, erba alta, foglie secche, fiori appassiti, acqua stagnante. Ma forse va anche bene così. In fondo la semplicità del luogo in cui riposano le sue spoglie l'aveva desiderata lui, una dedica su un sasso all'ombra di un ginepro e nient'altro.
Un pò beffarda la posizione. Non me lo ricordavo completamente circondato dai sacrari degli onorevolissimi militari!
Ciao Gian. Sei stato un grandissimo.

domenica 5 agosto 2012

Asteroidea


Quest'anno i mari sono vuoti, pochissimi pesci in giro. Rincontrarla dopo tanto è stato emozionante....

martedì 12 giugno 2012

Coglioni torrentizzano



Dopo una mattinata di appuntamenti e consultazioni ossolane ci ritroviamo un pomeriggio libero, il cielo si è quasi del tutto ripulito dalle nubi e allora decidiamo di andare a dare un occhiata all'Isorno inferiore dall'ingresso poco sopra il ponte per percorrere la parte bassa, un'ora e mezza di percorso. In mattinata avevamo telefonato alla diga e ci avevano detto che il livello era basso e non erano previsti rilasci, quindi anche gli ultimi dubbi circa il troppo pieno scomparivano.
Dal ponte osserviamo l'acqua, si vede che ce né parecchia, forse quanta ne trovammo 2 anni fa in questo stesso periodo durante il riarmo in vista del raduno ossolano? Allora non entrammo, ma questa vocina rimbomba nella mia testa mentre ci apprestiamo a scendere lungo il ripido sentierino d'ingresso. Siamo sul greto, mentre mi cambio lascio che la voglia di percorrere il torrente, che mi sfugge da qualche anno, prevalga. Siamo pronti, salutiamo i nostri 2 compagni Alberto e Matita, che non possono scendere con noi e ci avviamo. Sono le 14.10. Appuntamento al massimo alle 16 dalla centrale. Siamo in tre, abbiamo 2 corde da 60 metri e il terzo ha il materiale di soccorso, un bidoncino in tre. Pensiamo sia sufficiente, d'altronde è un oretta di percorso, troppo poco perchè ci possano essere degli intoppi! Paolo l'ha già percorso 2 volte, Ale una e io mai, informazioni da ripescare nei lontani anfratti della memoria dovremmo trovarne. L'acqua è fredda e abbondante, ma la prima calata, quella sotto al ponte, si scende facilmente in riva destra, senza nemmeno bisogno di servirsi del deviatore. In acqua la corrente è forte e ti spinge veloce verso valle. Segue un tratto di camminata lungo il greto intervallato da piccoli risalti e facili disarrampicate, notiamo che è piuttosto difficile resistere alla corrente quando dobbiamo guadare il torrente. La stessa impressione attraversa le menti di ognuno, ma tutti seguono il primo che scende senza porsi ulteriori domande. Giungiamo sulla seconda calata, armata a sinistra con cascata sulla destra. Nella pozza, lunga una quindicina di metri, un grande ribollìo dell'acqua ci invita a valutare, la calata ti porta dritto nella morta e la schiuma arriva fino alla spiaggetta in fondo, forse meglio tuffare, ma non si vede un accidente. Scende il primo, nuota a fatica lungo la parete e riesce infine a guadagnare la riva, scende il secondo, io mi tuffo per saltare tutto sto sbattimento.
La spiaggetta è in realtà una frana, la attraversiamo, e pochi metri ci portano sull'orlo della cascata da 30 metri, che sapevamo essere il punto più critico, ma che in teoria si dovrebbe attraversare velocemente solo poco dopo l'inizio per poi restare dietro il getto.
Ale va per primo, quando si gira la sua faccia dice tutto.
Vado a vedere io... porcaputtana! Ma cos'è sta roba?
Tutta quell'acqua che scendeva con discreta forza lungo i vari corridoi che si è scavata nel tempo è ora convogliata in un unico potentissimo punto che dà vita ad un getto con un fronte di boh? 4 metri che si schianta dirompente contro la parete opposta distante non più di 6 o 7 metri, in mezzo a un frastuono assordante. L'acqua che sale nebulizzata dal basso ti bagna la faccia annegando in un attimo le tue già vacillanti convinzioni e smascherando impietosamente l'amara realtà. La senti quasi ridere beffarda a ricordarti la tua nullità, ci par proprio di udire le parole scandite da un eco lontano, “coglioni-oni-oni...”. Per un attimo riesce pure ad ammaliarci e ci invita a scendere nelle sue vorticose spire a godere del frizzante panorama e dell'effervescente massaggio.
Siamo fortunati.
Siamo fortunati perchè prevale la paura. In quel momento non è facile mantenere la lucidità, perchè la sicurezza con cui sei abituato ad affrontare e gestire le situazioni che ti circondano sfugge via. E devi farlo onestamente. Ovvero devi mettere da parte l'orgoglio prima e la paura del giudizio poi. In breve devi prendere alcune decisioni che non ti permettono di tornare indietro.
In realtà questo era già successo poco prima quando ci siamo “dimenticati” di lasciare armata la calata precedente per consentirci di tornare sui nostri passi. Cosa che in passato avevamo già fatto. Oggi no. Oggi è il tempo di essere coglioni, e noi andiamo avanti senza sentir ragioni. Ma per fortuna, davanti a quella stretta gola inondata d'acqua, per un momento rinsaviamo. Le espressioni di ciascuno di noi riflettono chiari quei sentimenti che ci sono dentro e che non abbiamo voluto lasciare emergere. Paolo prova ad “esplorare” la calata nel buco, in quel punto si può scendere in un buco che porta dritto dietro al getto senza bisogno di attraversarlo.
In teoria.
In pratica si trova davanti ad una parete bianca. Torna su. Con il passare dei minuti capiamo che, pur'anche riuscissimo, rimbalzando e correndo, cappottando e risvoltando, girovagando e zuzzurellando, a scendere giù da quella calata, saremmo immersi nell'acqua in un punto che si stringe e che gira e che risalta, insomma saremmo nella cacca, ma quella vera.
Torniamo indietro. Ok la prima decisione è presa. Non si può andare avanti. Sono le 1530. Proviamo a nuotare nella pozza precedente per guadagnare la cascata precedente. Avanziamo in un ribollire bianco di un metro, poi due, poi due e mezzo, poi due e settantacinque, poi due e ottanta, poi due e settanta poi 2 e siamo al punto di partenza. Osserviamo le pareti. Piantiamo due spit e raggiungiamo quella cengia e poi quell'albero e torniamo alla sommità della calata. No. Non abbiamo il piantaspit. Ecco. Bene. Bravi. D'altronde noi siamo persone serie, se decidiamo di fare una cazzata la facciamo bene, le mezze misure non ci piacciono. Allora proviamo a metterci uno sull'altro e formiamo una scaletta umana, ma i punti a cui arriviamo sono lisci, scivolosi e senza appigli.
Desistiamo.
Ci guardiamo e Ale, a metà tra il beffardo e il rassegnato chiede “Allora siamo nella merda!?”
Direi di sì...
Girovaghiamo senza meta ancora una buona mezzoretta per la nostra nuova dimora, non si capisce bene se desideriamo conoscerla e prenderci familiarità o se forse abbiamo ancora un po' di adrenalina da scaricare. Di fronte alla frana, sulla riva opposta, sale una cengia che porta ad un grosso scavernamento sopraelevato rispetto all'acqua di buoni 4 o 5 metri. Lì stiamo al sicuro. Accendiamo tutti i nostri tre telefoni, si perchè ne abbiamo portati tre di tre compagnie diverse, almeno in quello siamo stati previdenti, e giriamo alla ricerca del segnale perduto. Inutile dire che nessuno dei nostri gioielli tecnologici ci assiste. Passano i minuti, passano le ore. Lentamente. Cosa abbiamo nell'unico bidone di soccorso che abbiamo portato? Un paio di barrette, un telo termico, candele. Bene, è già qualcosa. Distribuiamo gli zaini in giro in modo che siano al massimo visibili. Facciamo un po' di legna mentre aspettiamo, tronchi e tronchetti non mancano, sono secchi e sembrano pure asciutti. Li accumuliano su nello scavernamento, per arrivarci occorre attraversare il torrente, e visto che siamo 6 o 7 metri sopra la cascata e la corrente è piuttosto forte tendiamo una corda. Tra una balla e l'altra si fanno le 6. Avranno chiamato i soccorsi gli altri? Speriam... Poveretti, chissà quanto si staranno preoccupando. Ogni tanto sentiamo un rombo di elicottero, alziamo gli occhi al cielo, ma non vediamo mai nulla. Dopo un po' ci convinciamo che siamo già in preda al delirio. Tra un po' inizieremo a sospettare il complotto e alla fine ci mangeremo a vicenda. Certo che siamo durati proprio poco.....
Ogni tanto, preda della solitudine e dell'incomprensione, fischiamo diverse volte per segnalare a qualche rospo e a qualche merlo acquaiolo che ci siamo anche noi. Probabilmente loro non gradiscono molto.
Ale afferra una pietruzza e scrive epiteti su se stesso sulla parete. “Ale è un mimchione”
Alle 7 e qualcosa oltre al rombo si agitano tutti gli alberi, stavolta è vero, c'è l'elicottero. Ci mettiamo tutti in posizioni diverse in modo da avere più probabilità di essere visti. Io sono in una pozza, tutti agitiamo le braccia. Quelli lassù fanno un giro, poi un secondo giro, fanno segno di averci visti. Un terzo giro, non distante passano i cavi dell'alta tensione, difficile che ci tirino direttamente fuori. Se ne vanno. Almeno un segnale è arrivato. Sensazioni che ci attraversano sono a metà tra l'euforico e il rammarico per aver messo in movimento tutta 'sta gente per 'sta cazzata.
Aspettiamo.
Dopo un po' Ale con la sua vista da falco, scorge lontano lontano 2 figure che si muovono intorno ad un albero sul ciglio del burrone. Eccoli? Ma che fanno lassù? Ma si vorranno calare da lì? Ma saranno 400 metri di parete! Ma perchè non mandano giù 2 nel torrente a buttarci una cordetta, in mezzora saremmo fuori! Senza tanti sbattimenti. Ma come diavolo si fa a comunicare? E via dicendo....
Aspettiamo, si fa buio. Provo a cimentarmi nelle mie indiscusse e riconosciute doti di fuochista, ma qui dentro non si accende manco la carta. Dopo un po' desisto. Ci sdraiamo comodi sulla roccia umida, preda ognuno delle sue riflessioni. Certo che quando deve arrivare il tuo momento arriva senza annunciarsi troppo e magari pure nel momento meno opportuno! Insomma, ora no, non sono pronto.... Tra un po' magari.....
Arriva Paolo e stende il telo termico sui nostri umidi corpi, per essere così sottile il suo lavoro lo fa bene. La candela fa il resto. Il momento più brutto della nottata è quando devi pisciare. Ti tocca spogliarti tutto e non fa per niente piacere.... Nel dormiveglia, nelle lunghe ore di veglia intervallate da brevi momenti di sonno, scorgiamo una luce potente sopra di noi. La luna! Ma che luna, sono le fotoelettriche che illuminano il canyon. Staranno scendendo? Boh? Aspettiamo....
“Oh! la mia parte di telo è più corta! Non tirarla!”
“Oh! Che ore sono? Le 22 e 40. Ancora? Belin, non passa più.”
“Oh! C'è l'elicottero che continua a girare, ma si nasconde. No, l'elicottero non torna più, appena hanno visto che stavamo bene hanno deciso di farcela cagare e lasciarci qui perlomeno una notte.”
“Belin, che mal di schiena!”
Il potente rombo del torrente ci accompagna tutto il tempo, ad un certo momento sembra anche più forte. Molto più forte. Scopriremo il giorno dopo che la diga ha rilasciato, per il troppo pieno. Meno male che il livello era basso.... Va già bene che siamo quassù, più o meno al sicuro.
Si fa giorno, lentamente. Contrariamente a quanto pensavamo il freddo non è stato eccessivo. Passano i minuti, ci alziamo, ci guardiamo in giro, non c'è un anima, torniamo “a letto”.
Poco dopo il rombo di un elicottero. Stavolta vicinissimo. Vola di tutto. Sta scendendo la squadra. Adrenalina. Raccogliamo in fretta la nostra roba, scendiamo dalla cengia, attraversiamo la corrente con la corda che avevamo lasciato li durante la notte.
Arrivano i soccorsi!
Atterrano, l'elicottero se ne va. Si sincerano delle nostre condizioni. I loro sorrisi sono incoraggianti. Sono un italiano del soccorso alpino e uno svizzero.
“Svizzero?”
“Sì, questa è l'Air Zermatt.” Risponde l'italiano.
“L'Air Zermatt?”
“Sì”, risponde sconsolato, noi non abbiamo a disposizione un baricentrico e devono scendere loro. “Ah! Ottimo!”
“Comunque in giro ci sono una trentina di persone, squadre in alto a sinistra e a destra, e qui dietro una squadra in forra che aspetta di intervenire. Stanotte le fotoelettriche le abbiamo messe per tenervi compagnia, e ieri sera vi osservavamo da in cima al burrone”
“E perchè non siete scesi subito lungo il torrente?”
“Perchè visto che uno di voi era in acqua pensavamo ad un ferito e abbiamo preferito non intervenire con la squadra di terra”
“Ah!”
L'omino svizzero invece fa schiantare dal ridere, parla pochissimo italiano, ha due cuffie enormi, ride tutto il tempo, ogni tanto si sniffa del tabacco, e ride ancora, poi con un espressione serissima si concentra sulle sue supercuffie e di nuovo torna a ridere. Fantastico.
Ci agganciano con il cavo. Iniziamo a salire.
Attraversare l'Isorno in volo è una cosa incredibile.
In un attimo siamo in alto, e vediamo tutta la gente che si è sbattuta stanotte per starci vicino. Un vento freddo attraversa i nostri corpi umidi e infreddoliti. Ora siamo sulla centrale. Com'era vicina la centrale, ci mancava davvero poco! Viriamo e siamo già sui prati di Altoggio. Piene di auto del soccorso. C'è pure l'ambulanza. Ci posa delicatamente sul prato. La nostra storia finisce qui.

Considerazioni sull'accaduto viste da chi era dentro

-Premessa fondamentale a tutte le considerazioni che seguono è: siamo stati dei gran coglioni, come avevo già sottolineato prima. La unica e sola responsabilità per quello che è accaduto è la nostra, c'è chi è stato causa di questo e chi è stato causa di quello, ma le gambe che ci hanno portato lì dentro sono le nostre e non le comanda nessun'altro se non noi stessi.

-Prima di entrare in forra avevamo materiale insufficiente a coprire il fabbisogno di 3 persone in caso di incidente, io personalmente ho considerato la brevità della forra come buona giustificazione all'essenzialità del materiale. Un bidoncino è in ogni caso inadeguato, e la lunghezza della forra non c'entra una beneamata mazza con il materiale da portare. E' stata dimenticata la sacca d'armo, che poteva farci uscire in tempi piuttosto rapidi. Capita a tutti. Ma anche quella va nel conto.

-Dal ponte e mentre ci cambiavamo sul greto abbiamo completamente sottostimato la portata e abbiamo perseverato nell'andare avanti nonostante fosse molto difficile guadare il torrente anche nei punti più facili.

-Portare a casa il risultato... in questa trappola psicologica è capitato a tutti di trovarsi. A me è parsa chiarissima in questo caso, tutta l'adorazione che ho sentito per questo torrente mi ha dato di volta al cervello! Insomma è colpa tua Skeno che hai scritto “delirio torrentistico!” :)

-Sull'ultima calata non ci siamo capiti bene e non abbiamo chiarito che la successiva sarebbe stata quella cattiva. Sarebbe bastato lasciarla armata con una corda e mandare avanti uno a vedere. O al limite anche tutti. Avremmo avuto una facile via di fuga a disposizione. Accorgimento che peraltro abbiamo già adottato in passato in situazioni analoghe. Oggi no, oggi siam coglioni.

-Io e Ale abbiamo condiviso la sensazione di non aver ascoltato il proprio istinto. Sembra una valutazione troppo sfuggente, ma quella vocina lì era da un po' che faceva notare perplessa che la cosa non era proprio sotto controllo. E' una sensazione come di disagio, che non abbiamo ascoltato, anzi l'abbiamo cazziata come paranoica e guastafeste!

-Quando si hanno queste sensazioni o si stanno facendo valutazioni tipo l'acqua forse è troppa sarebbe buona cosa fermarsi e parlarne con i propri compagni invece di tenersele per sé. Invece io personalmente non l'ho fatto, o l'ho fatto in modo insufficiente, e mi sono lasciato trascinare dal primo che entrava in azione: se va lui, allora possiamo andare!

-E qui entriamo in una dimensione più psicologica. Le parole chiavi sono orgoglio e paura. L'orgoglio mi invita a proseguire per vincere il confronto, che può essere una cosa buona e fonte di sfide che mi spingono a conoscere i miei limiti. Ma questo orgoglio diventa MORTALE quando impedisce alla prudenza, all'istinto, alla paura di manifestarsi, di uscire e di lasciar spazio alla loro giusta e sana perplessità. Questo vale per se stessi e vale per chi ti sta di fianco, vale per la lucidità con cui riesci a prendere le decisioni che determinano la buona riuscita dell'impresa e vale per il mimino livello di onestà morale nei confronti dei tuoi compagni di discesa, che non sono strumenti per la tua sopravvivenza, ma sono lo specchio della tua vita e organi essenziali per la sopravvivenza collettiva.
A chi non è mai capitato di trovarsi davanti ad una situazione cattiva e si è sentito sollevato sapendo che c'era qualcuno che andava avanti? Va bene fintanto che esiste una persona più esperta e più capace, o più sicura nel momento, è giusto e si impara a crescere. Va malissimo quando questa scelta determina o meno la prosecuzione della discesa. Vai avanti tu e va bene, vado avanti io, allora no, ci fermiamo. Questo perchè? Perchè si difetta in onestà verso di sé e verso gli altri e non si dice semplicemente e senza giudizio “non me la sento di andare giù!”. Stop. E si finisce con l'utilizzare il prossimo come strumento per la propria sopravvivenza, dimenticandosi che in torrente (come nella vita) chi ti sta di fronte sei tu e voi insieme siete parte di un unico organismo. Non arriva alla fine uno, non arriva alla fine nessuno. Nell'Isorno questa è stata una palese verità.

Non è una morale per nessuno, ci tengo a sottolineare che solo vuole essere il racconto della nostra esperienza e che possa funzionare da testimonianza per chi è capace di imparare le lezioni che la vita ti pone davanti mettendo da parte quel pregiudizio e orgoglio che ti inchiodano su infantili posizioni egocentrate per sempre. La nostra immensa coglionaggine ci ha portato ad inanellare una serie di cazzate e il nostro merito è stato fermarci al punto giusto. Ma da questo abbiamo imparato moltissimo. Ho citato potevamo fare questo e quello e ho rimarcato come sia stato possibile che abbiamo dimenticato quello e quell'altro. Ma questo è parlare del sesso degli angeli. Non esistono le possibilità, esistono solo i fatti! Ho scelto di andare a destra e basta, la sinistra da quel momento non esiste più ed è autolesionista pensare il contrario. Le cose sono andate così e non potevano andare in nessun altra maniera perchè questa storia doveva esserci servita in quel modo perchè avevamo bisogno di quello. Mille altre volte puoi ripetere le stesse cose cercando di insegnare qualcosa a qualcuno e quello non ti ascolterà mai. Poi spunta l'Isorno. Che con un ceffone ci ricorda simpaticamente quanto siamo coglioni! :)



Alcuni articoli apparsi sulla stampa locale e sulla tv locale

venerdì 6 aprile 2012

Sarajevo, 6 Aprile 1992

La guerra di Bosnia mi ha sempre impressionato molto, più di ogni altra. Non so che cosa in particolare mi abbia così colpito, forse l'efferatezza, la crudeltà, il feroce fratricidio. Forse quelle immagini che scorrevano alla televisione, i sadici cecchini cetnici che, come in un videogioco, attendevano il passaggio della gente sui grandi viali del centro, le signore che correvano con la spesa che rotolava sull'asfalto, tra i copri martoriati dei ragazzi, i serbi che si facevano fotografare con le teste dei musulmani in mano, la strage del mercato, Srebrenica...
La vicinanza? Un fazzoletto di mare ci separava da quella macelleria
L'indifferenza? Forse.....
Ma è il terrore che mi impressiona. Il terrore che la mente riesce a partorire e a dispiegare intorno a sè. Lucido. Chirurgico. Puro.
In qualche modo, in ogni modo, parte di noi.
Impressionante, ma anche famigliare.
Orribile, ma fraterno.
Terrore fraterno

 

Oggi cade il ventesimo anniversario della morte di Suada Dilberović, la prima vittima di quell'assedio che ha precipitato tutti i balcani in una spirale di sanguinaria follia. Suada partecipava ad una grande manifestazione per la pace che si teneva in quei giorni.
L'indomani sarebbe cominciata ufficialmente la guerra di Bosnia.


Sono passati gli anni e un giorno ci sono andato, accompagnando il caro Cesar che a quei tempi si dilettava a massaggiare i crani della gente per alleviarne i disturbi attraverso la terapia craniosacrale. Essa si basa sul movimento ritmico fisiologico cranio-sacrale, che altro non è che uno dei tanti movimenti involontari dell’organismo, come lo è ad esempio il battito cardiaco. Questo movimento nasce dall’emissione e dal riassorbimento del liquido cerebrospinale, che si trova all’interno di un sistema idraulico che avvolge cervello e midollo spinale. Da qui il nome di tecnica cranio-sacrale.


Tale liquido ha la funzione di mantenere un ambiente ideale in cui cervello e sistema nervoso possono svilupparsi. Il continuo aumento e diminuzione di pressione del liquido modifica costantemente il volume del cranio; per quanto minimo tale incremento volumetrico è manualmente percettibile dal terapista. Tale ritmo ha un determinato regime che indica uno stato di equilibrio salutare.


Cerco di riordinare ricordi confusi e lontani....

Un vecchio e rumorosissimo bielica mi porta ansimando da Belgrado fino a qui. E' primavera e fa già molto caldo, gli alberi sono di un verde intenso e l'aria è profumata. Cammino solitario per le strade del centro, lungo la Miljacka. Mi fermo ad un incrocio. Vecchie auto corrono ansimando. C'è puzza di smog. Mi siedo all'ombra, davanti a me un paio di altalene.
Un vecchio osserva la nipotina volare felice fino al cielo.


Mi si avvicina un bimbo, avrà 8 anni. Mi chiede se voglio un paio di occhiali. Da vista. Rotti. Ha in mano lo strumento del suo lavoro. Fa il lavavetri al semaforo. Scambia un paio di chiacchiere con una bimba che gioca sull'altalena. Sorridono.


Improvvisamente scappa. E' arrivato un blindato della EUFOR. Italiani. Si vede che si rimedia qualcosa da loro. Scatto una foto.


Un bimbo spaventato mi osserva da dietro il portone. Spaventa più lui me che io lui.


Ci sono molti bimbi a Sarajevo, che giocano. E ci sono moltissime donne. Bambini e donne, giovani e bellissime. Con una voglia di vivere contagiosa. Ma forse non è vero. Metto a fuoco meglio. Effettivamente ci sono molte donne. Belle e vitali. Ma è il confronto che le risalta. Mi guardo in giro. Non ci sono uomini. Non ci sono giovani maschi. Una incredibile quantità di bimbi che circolano per le strade, i cui maschietti e le relative mamme hanno l’arduo compito di ridare al paese quella popolazione maschile che ancora oggi manca dalle strade.


Mi aggiro per le vie di Dobrinja, il quartiere olimpico, una delle zona più martoriate durante la guerra. Qui la città mostra le sue ferite più profonde. Interi palazzi crivellati di colpi, appartamenti saltati in aria o semidistrutti.


Alcuni ricostruiti alla bell'è meglio. Ovunque cicatrici. Bambini giocano sui prati in fiore. Mi fermo ad osservare. Un vecchio si affaccia alla finestra del suo appartamento disastrato. Inizia ad inveire, non capisco nulla di ciò che dice. Alza i pugni e si guarda intorno, sembra che si lamenti della condizione in cui è costretto a vivere, oppure semplicemente maledice i serbi per aver ridotto così il suo quartiere.


Dobrinja. Che stava esattamente sulla linea di confine, dove le milizie serbe scaricavano i loro arsenali sui musulmani, una volta vicini di casa, amici, fratelli. Mi domando come doveva essere il punto di vista dell'infame cecchino. Entro in uno di questi grossi blocchi. Non è difficile. Con aria inquieta salgo le scale.


Ovunque portoni sprangati. Filo di ferro. Vetri rotti. Arrivo all'ultimo piano ed entro "in casa". Rifiuti e macerie. Una bottiglia di Rakia giace sul pavimento, fedele e tiepida compagna nelle lunghe serate invernali. Bella la vista da qui...


Per farsi un idea della situazione di allora.
Il quartiere olimpico rimane proprio sopra all'aeroporto, che è in basso a sinistra, sotto cui passava l'unico corridoio che permetteva l'approvvigionamento della città. La città era facile da tenere sotto scacco, è tutta circondata da colline che si ergono improvvise oltre i suoi stretti confini. Non c'è pace qui, troppi segni ancora. Passo davanti ad uno studio di tatuaggi, il tatuatore ritratto in alcune foto con bisonti in mimetica mi sottraggono dall'ingenua illusione che mi ero fatto sulla situazione a Sarajevo.
E certo! Mica bastano pochi anni di pace perchè tutto finisca e venga dimenticato.
Assassini e stupratori girano ancora liberi e tranquilli


Sono sotto l'Hotel Bristol. Un monumento alla guerra. Sventrato dai mortai, giace lì, inerme, presenza ingombrante di una città in cerca di normalità e di pacifica convivenza. Alla sua ombra ragazzini giocano a basket e writers provano a portare un pò di colore dentro questo antro buio e grondante odio, dove pochi anni fa la gente correva a tutta velocità in macchina per non farsi centrare dai cecchini


Al mercatino del vecchio quartiere di Bascarsija le bancarelle vendono souvenir della città, sculture fatte con le granate e portaceneri fatte con i bossoli dei mortai. Souvenir di guerra. Fiori che rinascono nei cannoni. Poco oltre, lungo il fiume, sta la biblioteca nazionale. Ancora completamente devastata dall'incendio che la distrusse durante la guerra. 

Durante quegli anni chi badava a mantenere un barlume di vita e di speranza, erano la solidarietà e l’aiuto reciproco. Le donne, che non dimenticando mai la loro voglia di vivere, portavano per le strade un pò di allegria e di colore in mezzo al grigio e al nero dei blocchi inceneriti dai cannoni serbi. Capitava sovente di vedere gruppi di donne che – elegantissime – camminavano per la città scansando proiettili e cumuli di macerie. Partecipavano persino a sfilate di moda improvvisate, che si tenevano nelle cantine e nei bunker sotterranei, illuminati solamente delle candele e dalle torce, vista la cronica penuria di energia elettrica.

Uno di questi eventi fu organizzato dal dottor Mirsad Muftic, fisiatra specialista in riabilitazione motoria, oggi primario della clinica Mojmilo, situata proprio nell’ex quartiere olimpico di Sarajevo.
Il dottor Muftic è un primario atipico. E' il più giovane primario di tutta la Bosnia, e si vede.


Il suo è un approccio alla vita e alla professione, che ben esprime lo spirito di riscossa e di voglia di vivere che si respira in questa città. Il dottor Muftic si è interessato per primo in Bosnia alla tecnica cranio-sacrale. Ha iniziato una collaborazione con l’Accademia cranio sacrale di Trieste, che ha inviato un gruppo di terapisti a Sarajevo, per insegnare agli allievi della sua clinica i segreti di questo metodo. Così loro si alternano a massaggiare e portare alla consapevolezza questi dolorosi sintomi. La sofferenza dipinge beffarda i suoi disegni sui visi provati della gente anziana.


Fuori dalla finestra fedi diverse guerreggiano, ma solamente a domino.


Mentre portano avanti il loro lavoro mi aggiro per il ricovero. Incontro un simpatico paziente, che attacca subito bottone. Abdullah di Bihac, una cittadina nel nord della Bosnia, è ricoverato “perché gli viene il mal di testa” dice lui. Nella sua città natale Abdullah viveva facendo il postino, prima e durante la guerra. È stato sposato con una donna norvegese, che è morta durante la guerra. Persona dotata di una sensibilità elevata ha perso la testa, non ha retto ad un simile trauma.
È venuto a Sarajevo durante la guerra, scappato dalle montagne dove le milizie serbe imperversavano e sfogavano i loro animaleschi appetiti.
Qui è sopravvissuto all’assedio e ora è ricoverato presso il centro di malattia mentale a Sarajevo, e sogna di poter sposare Anna, la ragazza sordomuta che siede a fianco a lui, e costruirsi una casa insieme in campagna.


Cammino intorno agli stadi e alle strutture sportive costruite per le olimpiadi del 1984. L'attrazione non sono più le costruzioni, ma gli spazi. Non sono i pieni, ma i vuoti. Dove c'era spazio si seppellivano i morti, subito. Non c'era tempo. 


Niente giardini o parchi, solo cimiteri.
Immensi cimiteri (a cielo aperto) hanno colorato di steli bianche i prati della città.
Una gazza mi vede e vola via veloce