venerdì 6 aprile 2012

Sarajevo, 6 Aprile 1992

La guerra di Bosnia mi ha sempre impressionato molto, più di ogni altra. Non so che cosa in particolare mi abbia così colpito, forse l'efferatezza, la crudeltà, il feroce fratricidio. Forse quelle immagini che scorrevano alla televisione, i sadici cecchini cetnici che, come in un videogioco, attendevano il passaggio della gente sui grandi viali del centro, le signore che correvano con la spesa che rotolava sull'asfalto, tra i copri martoriati dei ragazzi, i serbi che si facevano fotografare con le teste dei musulmani in mano, la strage del mercato, Srebrenica...
La vicinanza? Un fazzoletto di mare ci separava da quella macelleria
L'indifferenza? Forse.....
Ma è il terrore che mi impressiona. Il terrore che la mente riesce a partorire e a dispiegare intorno a sè. Lucido. Chirurgico. Puro.
In qualche modo, in ogni modo, parte di noi.
Impressionante, ma anche famigliare.
Orribile, ma fraterno.
Terrore fraterno

 

Oggi cade il ventesimo anniversario della morte di Suada Dilberović, la prima vittima di quell'assedio che ha precipitato tutti i balcani in una spirale di sanguinaria follia. Suada partecipava ad una grande manifestazione per la pace che si teneva in quei giorni.
L'indomani sarebbe cominciata ufficialmente la guerra di Bosnia.


Sono passati gli anni e un giorno ci sono andato, accompagnando il caro Cesar che a quei tempi si dilettava a massaggiare i crani della gente per alleviarne i disturbi attraverso la terapia craniosacrale. Essa si basa sul movimento ritmico fisiologico cranio-sacrale, che altro non è che uno dei tanti movimenti involontari dell’organismo, come lo è ad esempio il battito cardiaco. Questo movimento nasce dall’emissione e dal riassorbimento del liquido cerebrospinale, che si trova all’interno di un sistema idraulico che avvolge cervello e midollo spinale. Da qui il nome di tecnica cranio-sacrale.


Tale liquido ha la funzione di mantenere un ambiente ideale in cui cervello e sistema nervoso possono svilupparsi. Il continuo aumento e diminuzione di pressione del liquido modifica costantemente il volume del cranio; per quanto minimo tale incremento volumetrico è manualmente percettibile dal terapista. Tale ritmo ha un determinato regime che indica uno stato di equilibrio salutare.


Cerco di riordinare ricordi confusi e lontani....

Un vecchio e rumorosissimo bielica mi porta ansimando da Belgrado fino a qui. E' primavera e fa già molto caldo, gli alberi sono di un verde intenso e l'aria è profumata. Cammino solitario per le strade del centro, lungo la Miljacka. Mi fermo ad un incrocio. Vecchie auto corrono ansimando. C'è puzza di smog. Mi siedo all'ombra, davanti a me un paio di altalene.
Un vecchio osserva la nipotina volare felice fino al cielo.


Mi si avvicina un bimbo, avrà 8 anni. Mi chiede se voglio un paio di occhiali. Da vista. Rotti. Ha in mano lo strumento del suo lavoro. Fa il lavavetri al semaforo. Scambia un paio di chiacchiere con una bimba che gioca sull'altalena. Sorridono.


Improvvisamente scappa. E' arrivato un blindato della EUFOR. Italiani. Si vede che si rimedia qualcosa da loro. Scatto una foto.


Un bimbo spaventato mi osserva da dietro il portone. Spaventa più lui me che io lui.


Ci sono molti bimbi a Sarajevo, che giocano. E ci sono moltissime donne. Bambini e donne, giovani e bellissime. Con una voglia di vivere contagiosa. Ma forse non è vero. Metto a fuoco meglio. Effettivamente ci sono molte donne. Belle e vitali. Ma è il confronto che le risalta. Mi guardo in giro. Non ci sono uomini. Non ci sono giovani maschi. Una incredibile quantità di bimbi che circolano per le strade, i cui maschietti e le relative mamme hanno l’arduo compito di ridare al paese quella popolazione maschile che ancora oggi manca dalle strade.


Mi aggiro per le vie di Dobrinja, il quartiere olimpico, una delle zona più martoriate durante la guerra. Qui la città mostra le sue ferite più profonde. Interi palazzi crivellati di colpi, appartamenti saltati in aria o semidistrutti.


Alcuni ricostruiti alla bell'è meglio. Ovunque cicatrici. Bambini giocano sui prati in fiore. Mi fermo ad osservare. Un vecchio si affaccia alla finestra del suo appartamento disastrato. Inizia ad inveire, non capisco nulla di ciò che dice. Alza i pugni e si guarda intorno, sembra che si lamenti della condizione in cui è costretto a vivere, oppure semplicemente maledice i serbi per aver ridotto così il suo quartiere.


Dobrinja. Che stava esattamente sulla linea di confine, dove le milizie serbe scaricavano i loro arsenali sui musulmani, una volta vicini di casa, amici, fratelli. Mi domando come doveva essere il punto di vista dell'infame cecchino. Entro in uno di questi grossi blocchi. Non è difficile. Con aria inquieta salgo le scale.


Ovunque portoni sprangati. Filo di ferro. Vetri rotti. Arrivo all'ultimo piano ed entro "in casa". Rifiuti e macerie. Una bottiglia di Rakia giace sul pavimento, fedele e tiepida compagna nelle lunghe serate invernali. Bella la vista da qui...


Per farsi un idea della situazione di allora.
Il quartiere olimpico rimane proprio sopra all'aeroporto, che è in basso a sinistra, sotto cui passava l'unico corridoio che permetteva l'approvvigionamento della città. La città era facile da tenere sotto scacco, è tutta circondata da colline che si ergono improvvise oltre i suoi stretti confini. Non c'è pace qui, troppi segni ancora. Passo davanti ad uno studio di tatuaggi, il tatuatore ritratto in alcune foto con bisonti in mimetica mi sottraggono dall'ingenua illusione che mi ero fatto sulla situazione a Sarajevo.
E certo! Mica bastano pochi anni di pace perchè tutto finisca e venga dimenticato.
Assassini e stupratori girano ancora liberi e tranquilli


Sono sotto l'Hotel Bristol. Un monumento alla guerra. Sventrato dai mortai, giace lì, inerme, presenza ingombrante di una città in cerca di normalità e di pacifica convivenza. Alla sua ombra ragazzini giocano a basket e writers provano a portare un pò di colore dentro questo antro buio e grondante odio, dove pochi anni fa la gente correva a tutta velocità in macchina per non farsi centrare dai cecchini


Al mercatino del vecchio quartiere di Bascarsija le bancarelle vendono souvenir della città, sculture fatte con le granate e portaceneri fatte con i bossoli dei mortai. Souvenir di guerra. Fiori che rinascono nei cannoni. Poco oltre, lungo il fiume, sta la biblioteca nazionale. Ancora completamente devastata dall'incendio che la distrusse durante la guerra. 

Durante quegli anni chi badava a mantenere un barlume di vita e di speranza, erano la solidarietà e l’aiuto reciproco. Le donne, che non dimenticando mai la loro voglia di vivere, portavano per le strade un pò di allegria e di colore in mezzo al grigio e al nero dei blocchi inceneriti dai cannoni serbi. Capitava sovente di vedere gruppi di donne che – elegantissime – camminavano per la città scansando proiettili e cumuli di macerie. Partecipavano persino a sfilate di moda improvvisate, che si tenevano nelle cantine e nei bunker sotterranei, illuminati solamente delle candele e dalle torce, vista la cronica penuria di energia elettrica.

Uno di questi eventi fu organizzato dal dottor Mirsad Muftic, fisiatra specialista in riabilitazione motoria, oggi primario della clinica Mojmilo, situata proprio nell’ex quartiere olimpico di Sarajevo.
Il dottor Muftic è un primario atipico. E' il più giovane primario di tutta la Bosnia, e si vede.


Il suo è un approccio alla vita e alla professione, che ben esprime lo spirito di riscossa e di voglia di vivere che si respira in questa città. Il dottor Muftic si è interessato per primo in Bosnia alla tecnica cranio-sacrale. Ha iniziato una collaborazione con l’Accademia cranio sacrale di Trieste, che ha inviato un gruppo di terapisti a Sarajevo, per insegnare agli allievi della sua clinica i segreti di questo metodo. Così loro si alternano a massaggiare e portare alla consapevolezza questi dolorosi sintomi. La sofferenza dipinge beffarda i suoi disegni sui visi provati della gente anziana.


Fuori dalla finestra fedi diverse guerreggiano, ma solamente a domino.


Mentre portano avanti il loro lavoro mi aggiro per il ricovero. Incontro un simpatico paziente, che attacca subito bottone. Abdullah di Bihac, una cittadina nel nord della Bosnia, è ricoverato “perché gli viene il mal di testa” dice lui. Nella sua città natale Abdullah viveva facendo il postino, prima e durante la guerra. È stato sposato con una donna norvegese, che è morta durante la guerra. Persona dotata di una sensibilità elevata ha perso la testa, non ha retto ad un simile trauma.
È venuto a Sarajevo durante la guerra, scappato dalle montagne dove le milizie serbe imperversavano e sfogavano i loro animaleschi appetiti.
Qui è sopravvissuto all’assedio e ora è ricoverato presso il centro di malattia mentale a Sarajevo, e sogna di poter sposare Anna, la ragazza sordomuta che siede a fianco a lui, e costruirsi una casa insieme in campagna.


Cammino intorno agli stadi e alle strutture sportive costruite per le olimpiadi del 1984. L'attrazione non sono più le costruzioni, ma gli spazi. Non sono i pieni, ma i vuoti. Dove c'era spazio si seppellivano i morti, subito. Non c'era tempo. 


Niente giardini o parchi, solo cimiteri.
Immensi cimiteri (a cielo aperto) hanno colorato di steli bianche i prati della città.
Una gazza mi vede e vola via veloce